Una sentenza «contraddittoria». Così la definisce il sostituto Procuratore generale Raffaella Sforza la sentenza di assoluzione pronunciata lo scorso luglio dalla Corte d’Appello di Catanzaro nei confronti di Pietro Putrino, Diego Putrino (classe ’82), Diego Putrino (classe ’67), Ugo Bernardo Rocca e Vincenzo Torcasio, implicati nell’inchiesta “Quinta Bolgia”. Tutti gli imputati sono stati assolti dal reato di associazione mafiosa perché il «fatto non sussiste», in quanto, secondo i giudici d’appello «non vi è prova dell’esistenza di un rapporto di reciproci vantaggi, consistenti, per Putrino, nell’imporsi sul territorio in posizione dominante grazie alla cosca Iannazzo».
Una sentenza che proprio non è andata giù alla Procura Generale che ha proposto ricorso in Cassazione, chiedendo l’annullamento della sentenza proprio per quanto riguarda l’assoluzione degli amputati dall’associazione mafiosa, così come ha chiesto anche l’annullamento della revoca della confisca dei beni e delle società delle famiglie Putrino e Rocca e l’annullamento del rigetto della confisca anche per equivalente, del profitto frutto della commissione degli illeciti amministrativi nei confronti di Croce Rosa Putrino srl, La Pietà Putrino srl, Putrino Service srl e Rocca Servizi sas di Pietro Rocca.
Secondo il sostituto procuratore Sforza già in fase cautelare, il Riesame aveva ritenuto configurabile, nei riguardi di Pietro Putrino, la fattispecie delittuosa di concorso esterno in associazione mafiosa e che il successivo ricorso per Cassazione proposto nell’interesse dell’imputato era stato dichiarato inammissibile con sentenza della Corte di Cassazione. Questo perché aveva assunto una certa rilevanza «l’accertata esistenza di rapporti intercorrenti tra Pietro Putrino e Vincenzo lannazzo, così come risultanti dalle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia che, in modo univoco, hanno dato conto del fatto che Putrino si interfacciava con l’esponente di vertice della consorteria confederata in un contesto di reciproci vantaggi».
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